Nel XVII secolo, il celebre medico Italiano Marcello Malpighi appurò l’esistenza, sulla punta delle dita umane, di una serie di creste e occhielli disposti in modo estremamente distintivo da persona a persona. Questa scoperta ha così condotto alla possibilità di identificare gli individui gli uni dagli altri sulla base delle proprie impronte digitali. A mano a mano, il concetto di fingerprinting si è esteso anche ad altri dati biometrici, quali, ad esempio, le registrazioni vocali e le scansioni retiniche. E, molto recentemente, gli studi sulla connettività strutturale e funzionale del cervello hanno consentito di individualizzare allo stesso modo persino l’attività cerebrale.

Grazie infatti a tecniche di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), è possibile ottenere una mappatura funzionale dell’attività cerebrale di una persona, misurata in un certo lasso di tempo. Ciascuna di queste immagini rappresenta, in un certo senso, l’impronta digitale del nostro cervello. Ciò che viene analizzato nello specifico, è la sincronia tra le onde elettromagnetiche emesse dalle reti neurali delle varie regioni cerebrali durante l’esposizione del soggetto a specifici compiti cognitivi. Così facendo è possibile investigare in che modo queste aree si connettano e comunichino tra di loro. Molti studi hanno pertanto dimostrato come il profilo di connettività cerebrale funzionale di un individuo sia unico e affidabile, analogamente alle sue impronte digitali, e come possa essere possibile identificare con alta precisione uno specifico soggetto tra molti altri, sulla base proprio del suo profilo di connettività. Chiaramente, quindi, il Brain fingerprinting si è rivelato essere molto utile anche in campo criminologico, dal momento che attraverso questa tecnologia è possibile – in certi casi e in certe condizioni – identificare l’autore di un crimine in modo accurato e scientifico, misurando le sue onde cerebrali in risposta ad elementi (immagini, oggetti, descrizioni etc.) inerenti al reato in oggetto, e che solo l’autore potrebbe conoscere con tanta accuratezza. Poiché infatti, il cervello reagisce in modo molto specifico a stimoli che gli sono familiari, il rilevamento di questo pattern di risposta specifico e automatico – quindi indipendente dalla volontà del soggetto – funziona in modo analogo ad una “macchina della verità”.
In generale, la tecnica più comunemente utilizzata per raccogliere informazioni riguardanti un determinato evento delittuoso è rappresentata dall’interrogatorio. Tuttavia, questo sistema di indagine, per quanto utile, diretto e immediato, è inevitabilmente poco scientifico dal momento che i soggetti ascoltati possono mentire (più o meno volontariamente), i loro ricordi possono essere distorti e inquinati dal tempo e dalla prospettiva emotivo-soggettiva, etc. Per tale ragione, negli anni ’60 del secolo scorso fu introdotto il Guilty Knowledge Test (GKT), una tecnica pensata con l’obiettivo di stabilire con la massima accuratezza possibile la veridicità delle informazioni fornite durante l’interrogatorio sfruttando il cosiddetto “sistema di orientamento di risposte” (OR), ovverosia l’analisi di quel complesso di reazioni fisiologiche e comportamentali che vengono evocate nel soggetto dalla presentazione di specifici stimoli. Il GKT si basa sulla registrazione dei parametri fisiologici involontari dell’interrogato durante la somministrazione di una serie di domande, alcune delle quali basate su elementi estrapolati dalla scena del crimine e noti esclusivamente al reo, alla vittima e agli operatori intervenuti successivamente. Poiché l’impatto emotivo di tali elementi sul reo è, di norma, tale da agitarlo e dunque portarlo ad un arousal fisiologico, è possibile, registrando le risposte fisiologiche correlate con questa attivazione (ad es. attraverso la sudorazione, l’aumento del battito cardiaco, etc.) stabilire se un determinato soggetto sia coinvolto o meno con il crimine indagato. La logica di base dunque è che, un individuo estraneo ai fatti, non conoscendo determinati dettagli e dunque non considerandoli salienti per sé, non potrebbe reagirvi emotivamente e fisiologicamente.
Diversi studi statistici hanno dimostrato l’accuratezza del GKT stimandola intorno all’80% per la capacità di discriminare i soggetti estranei ai fatti o comunque innocenti, e del 96% per quanto riguarda l’identificazione di quelli colpevoli, apparentemente in assenza di falsi positivi. Nonostante queste evidenze, però, il GKT non è esente da alcuni limiti, quali ad esempio: l’oggettiva difficoltà nella costruzione delle domande affinché il loro contenuto possa effettivamente turbare emotivamente il reo, ma anche nell’individuare elementi non trapelati all’esterno e dunque non conoscibili anche da terzi. Ulteriori limitazioni riguardano la difficoltà nel reperire operatori adeguatamente formati all’utilizzo di questa tecnica, oppure le contro-misure adottate dalla Difesa. Infatti spesso i sospettati vengono adeguatamente preparati ad affrontare questo esame, con ovvie conseguenze sui risultati del test.
Con lo sviluppo della metodologia Brain Fingerprinting, questi limiti sembrano essere superati. Attraverso questo sistema è possibile infatti rilevare le reazioni dell’individuo al materiale presentato in modo scientifico, accurato e quasi del tutto scevro da manipolazioni perché non si tratta di risposte fisiologiche potenzialmente controllabili dallo stesso attraverso la gestione dell’emotività, bensì di onde elettromagnetiche. Studi dimostrano come, quando un dato elemento viene rilevato e riconosciuto come significativo da parte del soggetto, il suo cervello emette automaticamente una particolare risposta neurale definita da un pattern specifico di onde, identificabile attraverso l’elettroencefalografia e quindi registrabile in modo non invasivo mediante l’apposizione di elettrodi sul suo cuoio capelluto. Questo pattern è stato identificato con la sigla P300-MERMER (memory and encoding related multifaceted electroencephalographic response). Sebbene – per ovvie ragioni di costi e disponibilità- non sia sempre possibile sfruttare anche la fMRI per l’utilizzo del Brain fingerprinting in ambito criminologico, attraverso di essa è possibile ottenere una mappa cerebrale delle aree specificatamente attive durante la presentazione degli stimoli al soggetto, consentendo altresì di capire in quale tipo di attività sia coinvolto il suo cervello in quel momento. Poiché, ad esempio, la memoria è processata soprattutto dalle aree temporali e frontali, è chiaro che durante la rievocazione di un ricordo saranno queste aree a mostrare una maggiore attivazione, dimostrando quindi che il soggetto riconosce un determinato elemento.
Nonostante l’effettiva efficacia (di oltre il 99%) di questa metodologia, è doveroso smontare subito qualsiasi illusione: il Brain fingerprinting non è affatto in grado di risolvere qualsiasi caso. Infatti, così come le impronte digitali e le tracce genetiche possono contribuire a determinare la presenza o meno di una data persona in una determinata scena criminis ma non il suo ruolo nella stessa, le onde MERMER possono rivelare il coinvolgimento di una persona con il reato, ma non sempre consentono di stabilire la sua effettiva colpevolezza o innocenza. Infatti, un individuo potrebbe essere venuto a conoscenza di determinate informazioni connesse con il fatto perché trapelate attraverso i media, o perché rivelate in maniera non intenzionale dagli stessi investigatori prima di sottoporlo al test, senza però esserne stato necessariamente testimone in prima persona o peggio, autore. E’ chiara quindi l’importanza di agire con cautela anche di fronte a risultati apparentemente inequivocabili. Tuttavia, questa tecnica rappresenta innegabilmente sia un ulteriore passo verso la comprensione delle caratteristiche e del funzionamento del cervello umano, sia un solido ausilio per l’analisi forense e vale senza dubbio la pena continuare ad approfondirne lo studio e le potenzialità.
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