Neuroscienza della Memoria: Come i Geni Modellano i Nostri Ricordi

Quando si parla della facoltà di “ricordare” si tende generalmente a rimanere su un piano piuttosto astratto: un ricordo è infatti spesso concettualizzato come un’immagine mentale nella testa di chi lo pensa, oppure un aneddoto nelle parole di chi lo rievoca.

Ma in realtà il fondamento della memoria non è affatto immateriale, quanto piuttosto conseguenza di ciò che avviene, per lo più a livello biochimico, nel nostro cervello.

Immagine: “la persistenza della memoria”, S. Dalì, 1931, olio su tela

I geni implicati nei meccanismi mnesici, e i loro prodotti, sono ovviamente moltissimi, ma due in particolare sembrano implicati nella stimolazione della genesi di nuove connessioni tra popolazioni di neuroni e nell’inibizione della formazione di nuovi ricordi: parliamo rispettivamente dei geni CREB attivatore e CREB soppressore (dove CREB sta per “Response Element Binding Protein“).

Questi geni codificano per una proteina (un fattore di trascrizione), anch’essa chiamata CREB, che viene espressa soprattutto nei neuroni di amigdala, ippocampo e aree paraippocampali nonché in diverse regioni della corteccia cerebrale, dove svolge un ruolo ben documentato nei meccanismi di plasticità neuronale LTP, nella memoria a lungo termine e in quella spaziale (Silva, 2017).

Ora, è noto che la Drosophila melanogaster (il classico moscerino della frutta, un animale molto utilizzato nella ricerca genetica) tende generalmente ad apprendere a svolgere un determinato compito (es. evitare una scossa oppure riconoscere un nuovo odore) nel giro di dieci tentativi.

Ecco, è stato osservato (Yin et al., 1995; Kaldun, 2019) come le drosofile con più copie di CREB soppressore – che sono spesso anche le più anziane – sono del tutto incapaci di immagazzinare nuovi ricordi, al contrario di quelle che presentano un CREB attivatore in più, le quali invece sembrano essere molto più veloci ed efficienti nell’apprendimento di nuove informazioni.

L’esperimento venne replicato anche sui topi dai ricercatori del Cold Spring Harbor Laboratory: gli animali con un deficit nel gene attivatore sono risultati incapaci di immagazzinare nuovi ricordi a lungo termine. Tuttavia, essi sembravano comunque in grado di apprendere a svolgere determinati compiti se questi venivano insegnati loro nell’arco di brevi sessioni inframmezzate da frequenti pause (Bourtchuladze et al., 1994).

Tutto ciò probabilmente accade perché nel cervello vi è una quantità limitata di CREB attivatore, più o meno presente a seconda delle differenze individuali. Durante l’apprendimento, le scorte vengono consumate, per poi essere rifornite durante le pause di riposo.

Ragion per cui ridursi all’ultimo minuto per svolgere un’attività cognitiva impegnativa, come avviene quando si prepara un esame in tempi brevi o si lavora su un progetto a scadenza imminente, si rivela quasi sempre controproducente: un’unica interminabile “maratona di impegno mentale” va infatti ad esaurire per intero le nostre scorte di CREB attivatore, oltre che le nostre energie mentali e fisiche in generale. Una volta consumate è dunque necessario prendersi una pausa per ripristinarle, altrimenti nessuna nuova informazione che immetteremo verrà trattenuta a dovere nella nostra memoria.

Riferimenti Bibliografici

Silva, A. J., Kogan, J. H., Frankland, P. W., & Kida, S. (1998). CREB and memory. Annual review of neuroscience21, 127–148. https://doi.org/10.1146/annurev.neuro.21.1.127

Tully T. (1997). Regulation of gene expression and its role in long-term memory and synaptic plasticity. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America94(9), 4239–4241. https://doi.org/10.1073/pnas.94.9.4239

Tully, T., Bourtchouladze, R., Scott, R. et al. Targeting the CREB pathway for memory enhancers. Nat Rev Drug Discov 2, 267–277 (2003). https://doi.org/10.1038/nrd1061

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