Il 22 agosto 2025, nella metro di Charlotte, North Carolina, una giovane donna di 23 anni, Iryna Zarutska, fuggita dall’Ucraina per scampare alla guerra, viene aggredita e uccisa a coltellate da un senzatetto. Le telecamere di sicurezza immortalano non solo l’orrore dell’aggressione, ma anche qualcosa di ancora più agghiacciante: decine di passeggeri che assistono immobili, indifferenti alle grida di aiuto di una ragazza che muore davanti ai loro occhi.

Questo caso, che ha scosso l’opinione pubblica mondiale, rappresenta un esempio estremo di quello che gli psicologi chiamano “bystander effect” (in Italiano, “effetto spettatore”), ma dietro questa apparente crudeltà si nasconde una realtà neurobiologica complessa che la scienza moderna sta iniziando a decifrare.
Il cervello sociale e la diffusione della responsabilità
Le neuroscienze cognitive hanno identificato specifici circuiti neurali che si attivano quando ci troviamo in situazioni di emergenza in presenza di altri individui. La ricerca pubblicata su Psychological Science nel 2018 e successivamente approfondita in studi su Nature Neuroscience ha dimostrato che la presenza di altre persone attiva la corteccia prefrontale dorsolaterale, l’area cerebrale responsabile del controllo inibitorio e della valutazione delle conseguenze sociali.
Quando il nostro cervello percepisce che altri potrebbero agire, attiva automaticamente meccanismi di “diffusione della responsabilità“: più persone sono presenti, meno ogni individuo si sente personalmente responsabile dell’azione. Questo fenomeno non è frutto di cattiveria o indolenza, ma il risultato di circuiti neurali evolutivi che hanno favorito la sopravvivenza del gruppo rispetto all’azione individuale rischiosa.
Studi di neuroimaging condotti presso l’Università di Oxford hanno mostrato che durante situazioni di emergenza collettiva, l’attività della corteccia cingolata anteriore, normalmente associata all’empatia e alla percezione del dolore altrui, diminuisce significativamente in presenza di altri spettatori. È come se il cervello “spegnesse” selettivamente la nostra capacità di sentire il dolore degli altri quando ritiene che la responsabilità sia condivisa.
L’eclissi dell’empatia: i meccanismi neurobiologici
L’empatia, quella capacità fondamentalmente umana di sentire e condividere le emozioni altrui, risiede in una rete neurale complessa che include i neuroni specchio, la corteccia prefrontale mediale e l’insula. Tuttavia, questa rete non è sempre attiva alla stessa intensità: può essere modulata, attenuata o persino soppressa da fattori contestuali e neurologici.
Una ricerca pubblicata su Current Biology nel 2023 ha rivelato che situazioni di stress acuto, come assistere a un’aggressione violenta, provocano un’iperattivazione dell’amigdala, la struttura cerebrale deputata alla gestione della paura. Questa iperattivazione può letteralmente “disconnettere” i circuiti dell’empatia: quando il cervello percepisce una minaccia immediata, privilegia la modalità “lotta o fuggi” rispetto alla risposta compassionevole.
Nel caso specifico del bystander effect, si verifica quello che i neuroscienziati chiamano “congelamento empatico“: l’individuo rimane fisicamente presente ma emotivamente disconnesso, incapace di processare adeguatamente la sofferenza altrui perché il sistema nervoso è in modalità di sopravvivenza.
Il ruolo dell’ansia sociale e della paura del giudizio
Un altro elemento cruciale emerso dalla ricerca neuropsicologica è il ruolo dell’ansia sociale nel determinare l’indifferenza comportamentale. Studi condotti presso il MIT e pubblicati su Social Cognitive and Affective Neuroscience hanno dimostrato che la paura del giudizio sociale attiva gli stessi circuiti neurali del dolore fisico.
Quando un individuo si trova in una situazione di emergenza pubblica, il suo cervello non deve solo processare la necessità di aiuto della vittima, ma anche valutare le potenziali conseguenze sociali dell’intervento: “E se sbaglio? E se peggioro la situazione? E se gli altri mi giudicano?” Queste preoccupazioni attivano la corteccia prefrontale ventromediale, che può inibire l’azione pro-sociale in favore dell’auto-protezione.
Anche se questa non vuole essere una giustificazione al comportamento adottato dagli “indifferenti”, nel caso della povera Iryna, è possibile che gli altri passeggeri del convoglio abbiano sperimentato questo conflitto neurale: l’impulso empatico di aiutare contrastato dal terrore ancestrale di diventare a loro volta bersaglio di violenza o di essere giudicati inadeguati dagli altri presenti.
La desensibilizzazione: quando l’orrore diventa normale
Un ulteriore aspetto particolarmente preoccupante, emerso dalla letteratura scientifica è il fenomeno della desensibilizzazione. Ricerche pubblicate su Psychological Science hanno documentato come l’esposizione ripetuta a immagini di violenza, anche attraverso i media, riduca l’attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore quando ci troviamo di fronte a situazioni di sofferenza reale.
Viviamo in un’epoca di sovraesposizione mediatica alla violenza: dai telegiornali ai social media, siamo costantemente bombardati da immagini di guerra, aggressioni, morte. Questa saturazione sensoriale può portare a quello che i neuroscienziati chiamano “emotional numbing“, un’anestesia emotiva che ci protegge dal sovraccarico ma ci rende anche meno reattivi alla sofferenza reale quando la incontriamo nella vita quotidiana.
E’ possibile cambiare? La neuroplasticità della compassione
Nonostante questi meccanismi neurobiologici possano sembrare ineluttabili, la ricerca offre anche motivi di speranza. Gli studi di neuroplasticità hanno dimostrato che l’empatia e la compassione non sono caratteristiche fisse, ma capacità che possono essere sviluppate e potenziate attraverso training specifici.
Ricerche condotte presso l’Università del Wisconsin-Madison hanno mostrato che programmi di “compassion training” possono letteralmente rimodellare la struttura cerebrale, aumentando la densità di materia grigia nelle aree associate all’empatia e riducendo l’attivazione dell’amigdala in situazioni di stress. Partecipanti che avevano seguito otto settimane di training compassionevole mostravano maggiore attivazione dei circuiti pro-sociali quando esposti a immagini di sofferenza.
Altri studi hanno evidenziato che la pratica della mindfulness e della meditazione compassionevole può aumentare significativamente la probabilità di comportamenti di aiuto in situazioni reali. È come se potessimo letteralmente “allenare” il nostro cervello a resistere ai meccanismi automatici dell’indifferenza.
Implicazioni per la società: verso una neuroetica della responsabilità
Comprendere i meccanismi neurobiologici dell’indifferenza sociale non deve diventare una scusa per deresponsabilizzarci, ma piuttosto uno strumento per costruire strategie più efficaci di prevenzione e intervento. Se sappiamo che il bystander effect è in parte dovuto a meccanismi neurali automatici, possiamo progettare interventi educativi che tengano conto di questa realtà.
Programmi di formazione che simulano situazioni di emergenza, training di prima emergenza diffusi nella popolazione, campagne di sensibilizzazione basate su evidenze neuroscientifiche: tutti questi approcci possono contribuire a creare una società più reattiva e compassionevole.
La tragedia di Iryna Zarutska ci costringe a confrontarci con il lato più oscuro della natura umana, ma anche con la possibilità di trascenderlo. La scienza ci mostra che l’indifferenza non è inevitabile: è il prodotto di circuiti neurali che si sono evoluti in contesti molto diversi da quelli della vita moderna, ma che possiamo imparare a modulare e superare.
Ogni volta che scegliamo di non vedere, di non sentire, di non agire, rafforziamo i percorsi neurali dell’indifferenza. Ma ogni volta che scegliamo di resistere a questi impulsi automatici, di aprire il cuore alla sofferenza altrui, di agire nonostante la paura, rafforziamo invece i circuiti della compassione.
Iryna meritava che qualcuno rompesse il cerchio dell’indifferenza, che qualcuno scegliesse l’umanità oltre la biologia. Non possiamo riportarla in vita, ma possiamo fare in modo che la sua tragedia non sia stata vana: possiamo scegliere di essere diversi, di essere migliori, di essere umani quando la natura ci spingerebbe verso l’apatia.
La neuroscienza ci ha dato gli strumenti per capire perché spesso falliamo nell’essere compassionevoli. Ora tocca a noi usare questa conoscenza per costruire una società che non permetta più a nessuna Iryna di morire nell’indifferenza generale.
Riferimenti bibliografici
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