Il Déjà-vu è una peculiare sensazione durante la quale ci sembra di aver già vissuto l’esperienza che stiamo sperimentando in un dato momento. Può accadere mentre beviamo un caffè al bar, mentre ascoltiamo una nuova canzone, o anche durante una videochiamata: all’improvviso, un lampo di “già visto” ci coglie di sorpresa. Questo fenomeno ha dato adito, nel tempo, alle teorie più disparate, alimentando credenze circa la possibilità di “prevedere gli eventi futuri”, di aver “vissuto un’altra vita”, di possedere “poteri parapsichici” etc. In realtà, si tratta di un evento del tutto normale, presente in modo regolare almeno il 60% della popolazione umana (Brown, 2003) ma che tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita.
Ma cosa lo determina a livello neurale? Scopriamolo insieme!

Secondo la ricerca neuroscientifica, non c’è nulla di magico o mistico dietro il déjà‑vu: si tratta di un fenomeno legato ai meccanismi interni di memoria e percezione. Studi recenti suggeriscono che sia frutto di un lieve disallineamento temporale tra percezione e codifica cerebrale — un piccolo ritardo di pochi millisecondi che induce il cervello a interpretare ciò che è presente come “familiarità”.
Quando è lo stress a scatenare tutto
Molti ricercatori, come Spatt (2002), osservano che il déjà‑vu si verifica con maggiore frequenza in stati di stress o tensione. Perciò si tratterebbe del risultato di una lieve forma di sindrome a base irritativa (una sorta di epilessia) -circoscritta e del tutto occasionale- che genera un errata sincronizzazione di funzionamento tra le aree cerebrali preposte all’elaborazione mnestica (ippocampo e corteccia paraippocampale) e quelle preposte alle funzioni cognitive (aree frontali).
Sicché, l’esperienza che il soggetto sta vivendo viene registrata e codificata da queste strutture in tempistiche lievemente ritardate rispetto alla norma.
Ecco che, allora, il cervello interpreta tali informazioni come delle memorie, conducendo alla netta sensazione di aver “già vissuto” quel momento o quell’esperienza. In quei momenti il cervello, particolarmente il lobo temporale mediale (MTL), può andare in “overdrive” generando micro‐attività epilettiforme, non patologica ma sufficiente a creare un piccolo glitch mnestico. Questo rallentamento tra aree preposte alla percezione e quelle coinvolte nella memoria porta alla sensazione che “ho già vissuto questo momento“.
Semplificando: mentre la capacità percettiva della persona resta invariata e ben sincronizzata, il processamento delle informazioni relative all’esperienza che si sta vivendo in quel momento, subisce un lieve ritardo (in termini di millisecondi), dando così origine all’illusione di aver già vissuto quella particolare situazione.
Il cuore del fenomeno: ippocampo e pattern completion
L’ippocampo, e in particolare la sua subregione CA3, gioca un ruolo centrale. Una ricerca con fMRI a 7 Tesla su 30 adulti ha dimostrato che la CA3 si attiva durante la ricostruzione di memorie complesse partendo da frammenti, un processo noto come “pattern completion”.
Questo significa che un dettaglio sensoriale -suoni, luci, sensazioni- può bastare per evocare un’esperienza simile già vissuta, creando quella sensazione intensa di déjà‑vu.
Emblematico è lo studio di Horner et al. (2019): quando una sola parte di un ricordo stimola l’ippocampo CA3, il sistema ricostruisce l’evento intero. Ciò può spiegare come, trovandosi in una situazione nuova ma con un dettaglio che richiama qualcosa di noto, sperimentiamo quella sensazione di “già vissuto”.
Familiarità e non ricordo: il déjà‑vu come eco sensoriale
Un aspetto particolarmente affascinante del déjà‑vu è che non richiede necessariamente il recupero di un ricordo completo o dettagliato per manifestarsi. Anzi, la sua origine sembra più legata a un senso sfumato e diffuso di familiarità. Non è tanto “ricordare” qualcosa, quanto “sentire” che qualcosa ci appartenga già, pur non riuscendo a collocarlo con precisione nella nostra storia personale.
Un’importante conferma di ciò ci arriva da studi clinici condotti su pazienti con danni selettivi all’ippocampo, una struttura cerebrale deputata, in particolare, alla codifica e al richiamo della memoria episodica, cioè quella relativa agli eventi specifici del passato. In questi soggetti, pur in presenza di amnesia significativa e incapacità di richiamare eventi personali, la capacità di provare déjà‑vu restava intatta. Come è possibile?
La chiave risiede nella corteccia peririnale, una regione adiacente all’ippocampo, coinvolta nella percezione della familiarità. Quando quest’area è funzionale, può generare la sensazione che un’esperienza corrente “risuoni” come conosciuta, anche se il cervello non è in grado di accedere al contesto o ai dettagli del ricordo (Yonelinas, 2002). In altre parole, l’attivazione della familiarità, anche in assenza del recupero mnemonico consapevole, è sufficiente per innescare il déjà‑vu.
Questa scoperta è supportata anche da studi di neuroimaging: durante episodi indotti sperimentalmente, la corteccia peririnale e la corteccia entorinale laterale si attivano selettivamente, suggerendo che il fenomeno possa derivare da una forma di “riconoscimento decontestualizzato”, ovvero senza collegamento diretto a una memoria precisa.
In sintesi, non è necessario “ricordare davvero” un momento per sentire di averlo già vissuto. A volte, basta che il cervello registri un pattern sensoriale che risuona con qualcosa di simile, immagazzinato in passato, e la sensazione di familiarità si accende come un riflesso automatico.
La via dopaminergica: quando la chimica cerebrale alimenta l’illusione
Un ulteriore aspetto intrigante e meno noto del déjà‑vu, riguarda il coinvolgimento dei sistemi neurochimici, in particolare della dopamina. Questo neurotrasmettitore, notoriamente implicato nei circuiti della motivazione, del piacere e dell’apprendimento, sembra giocare anche un ruolo non trascurabile nella modulazione della familiarità.
Alcuni casi clinici e studi farmacologici suggeriscono che un aumento acuto della dopamina, soprattutto nei circuiti mesiotemporali, possa amplificare l’attività delle aree corticali coinvolte nel riconoscimento, inducendo la sensazione di déjà‑vu anche in condizioni artificiali. Un esempio emblematico è riportato da Taiminen e Jääskeläinen (2001): in questo studio, un paziente trattato con amantadina (un farmaco dopaminergico usato per il morbo di Parkinson) sviluppò episodi ricorrenti e intensi di déjà‑vu, in assenza di patologie neurologiche sottostanti. I ricercatori ipotizzarono che l’aumento della dopamina nelle aree del lobo temporale mediale avesse alterato i normali processi di codifica mnestica, generando percezioni distorte di familiarità.
Ma il legame non si ferma qui. Sappiamo che la dopamina agisce anche nei meccanismi di predizione e conferma dell’esperienza: modula la salienza degli stimoli e contribuisce a stabilire se un input sensoriale debba essere considerato “nuovo” o “noto”. Quando questo sistema viene iperstimolato -ad esempio in condizioni di stress, uso di sostanze psicoattive o disfunzioni neuropsichiatriche- può verificarsi una “iperattribuzione di significato” a eventi banali, creando quella sensazione quasi mistica di averli già vissuti.
Alcune ricerche su modelli animali con crisi epilettiche indotte mostrano che l’attività dopaminergica può accentuare l’eccitabilità neuronale nelle regioni temporali mediali, facilitando così la comparsa di fenomeni mnestici anomali, tra cui il déjà‑vu (Ko et al., 2009).
In sostanza, la dopamina non solo accende la motivazione e l’attenzione, ma può -quando in eccesso- alterare la percezione del tempo e della memoria. È come se il cervello, inondato da segnali di “rilevanza” dopaminergica, interpretasse l’esperienza presente come qualcosa di già noto, anche se non lo è affatto.
Il déjà‑vu: un inganno benigno, una finestra sulla mente
In conclusione, al di là delle sue sfumature misteriose e del fascino che da sempre esercita sull’immaginario collettivo, il déjà‑vu è oggi riconosciuto come un fenomeno neurocognitivo del tutto naturale, seppur ancora in parte enigmatico. È il prodotto di un raffinato -e a volte fallace- gioco di sincronia tra le strutture cerebrali deputate alla memoria, alla percezione e alla valutazione della familiarità.
Non si tratta di “ricordi veri” né di esperienze provenienti da vite precedenti, ma piuttosto di un’illusione costruita dalla nostra mente quando qualcosa nell’ambiente ci richiama, anche vagamente, un pattern già noto. Un piccolo disallineamento temporale, una momentanea iperattività dopaminergica, o una scintilla tra ippocampo e corteccia peririnale: bastano pochi millisecondi perché l’esperienza si travesta da memoria.
In condizioni fisiologiche, infatti, si tratta di un fenomeno transitorio e benigno, quasi poetico, che ci ricorda quanto sia complesso e finemente calibrato il funzionamento del nostro cervello. Tuttavia, qualora si manifestasse con alta frequenza, intensità o si accompagnasse ad altri sintomi neurologici o psichiatrici, potrebbe rappresentare un segnale da non sottovalutare, un “campanello” che invita a un’indagine clinica più approfondita.
In definitiva, il déjà‑vu ci racconta quanto la mente umana sia capace non solo di ricordare, ma anche di creare l’illusione del ricordo. Ed è proprio in questi piccoli “glitch” dell’esperienza che possiamo intravedere, forse, le crepe affascinanti e profonde della coscienza.
Riferimenti bibliografici
Yonelinas, A.P. (2002). The nature of recollection and familiarity: A review of 30 years of research. Journal of Memory and Language, 46(3), 441–517. https://doi.org/10.1006/jmla.2002.2864
Bowles, B., Crupi, C., Mirsattari, S.M., et al. (2007). Impaired familiarity with preserved recollection after anterior temporal-lobe resection that spares the hippocampus. Proceedings of the National Academy of Sciences, 104(41), 16382–16387. https://doi.org/10.1073/pnas.0705274104
Taiminen, T. J., & Jääskeläinen, S. K. (2001). Intense and recurrent déjà vu experiences related to amantadine and phenylpropanolamine in a healthy male. Journal of Clinical Neuroscience, 8(5), 460–462. https://doi.org/10.1054/jocn.2000.0891
Ko, D., Wilson, C. L., & Engel, J. (2009). Dopaminergic modulation of seizure activity in temporal lobe epilepsy. Neuroscience, 159(1), 73–83. https://doi.org/10.1016/j.neuroscience.2008.12.007
